“Acqua” di Bapsi Sidhwa
edito Neri Pozza
Scritto in soli tre mesi Acqua di Bapsi Sidhwa è un raro caso di riscrittura da un film. L’autrice venne invitata a scrivere un romanzo che potesse uscire in coincidenza della prima americana di Water film della regista indo-canadese Deepa Metha. L’editrice Anna Porter inviò a Bapsi Sidhwa la sceneggiatura del film e la prima versione del film, con l’incantevole musica di A. R. Rahman. L’autrice venne subito catturata dalla storia e dalla bellezza del film e riuscì a scrivere di getto questo romanzo.
«Nella tradizione braminica», disse Somnath, con il tono conciliante ma autoritario che adottava con i devoti, «una donna è riconosciuta dome persona solo quando è unita al proprio marito. Solo allora diventa sumanagali, una donna di lieto auspicio, e una saubhagyavati, una donna fortunata».
1936, in un villaggio tra il Bihar e il Bengala, nel sud dell’India. Secondo le usanze delle famiglie più povere Chuyia sei anni viene fatta sposare con Hira Lal un amico di famiglia, un uomo di quarantaquattro rimasto vedovo. Passano due anni e Hira Lal muore. Chuyia ha allora otto anni vive e gioca ancora in famiglia, ma da questo momento non sarà più una bambina sarà una vedova bambina. Sarà costretta ad abbandonare la casa materna, non potrà più indossare vestiti colorati e gioielli, dovrà rasarsi il capo e dovrà vivere all’interno di un ashram di vedove, una sorta di monastero.
“Secondo il Manusmriti, il principale testo sanscrito della tradizione la vedova doveva avere la testa rasata, non poteva indossare alcun ornamento e doveva rimanere in lutto perpetuo. Doveva rispettare i digiuni ed evitare i cibi piccanti, in modo da raffreddare la sua energia sessuale, e ogni occasione fausta, essendo lei considerata infausta (per aver causato la morte del marito). Doveva rimanere casta, devota e fedele alla memoria del marito.
Il testo Vriddha Hirata, più tardo, era ancora più esplicito. Alle vedove non era permesso masticare il betel, mettersi profumi, fiori, ornamenti o vestiti colorati, mangiare in recipienti di bronzo, fare due pasti al giorno o mettersi il collirio negli occhi. Dovevano indossare solo indumenti bianchi, dominare i sensi e la rabbia, e dormire per terra.”
L’arrivo di questa vivace bambina nell’asharam di vedove, è motivo di trambusto e disordine. La struttura è retta dalla grassa matrona Madhumati una donna cattiva, insopportabile avida e sfruttatrice, ma la piccola Chuyia (letteralmente topolino) riuscirà ben presto a catturare le simpatie di tutte le altre vedove. Legherà soprattutto con la bella Kalayani, dal viso ovale e luminoso incorniciato da splendidi capelli neri e con la saggia Shakuntala vedova che conosce le antiche scritture, che sarà la sua liberatrice.
La storia di Chuyia, ci offre un ritratto dell’India di fine anni Trenta: le sue tradizioni, il sistema delle caste, la corruzione, la restrizione alla libertà delle vedove e la difficile vita di povertà ed emarginazione che queste donne sono costrette a vivere. Sullo sfondo di questo ritratto dell’India coloniale, vediamo emergere la figura di Gandhi, che contrasterà questa tradizione e che si impegnò per abolire questa discriminazione, infatti verrà ufficialmente abolita di lì ad alcuni anni con un’apposita legge voluta proprio dal Mahatma.
È un libro bello e piacevole che scorre in fretta e si lascia leggere senza troppe difficoltà. La storia è dolce e struggente, la prosa è semplice … ma non per questo leggero. Anzi il tema della posizione della donna nella società indiana è più che mai di attualità e sebbene passi ne siano stati fatti molti, ma molti ne restano ancora da fare.
Non so dire se sia meglio il film o il libro. Ammetto che prima ho visto il film e poi ho letto il libro, poi ho ancora rivisto il film. Dico ciò perché nel film c’è la storia, la bellissima fotografia e la colonna sonora che trasportano lo spettatore in questo viaggio nell’India per due ore, il libro è qualcosa di più lento, tutta la magia viene rilasciata lentamente, pagina dopo pagina si impara a conoscere i personaggi e le loro storie, ma si scoprono anche le usanze, costumi aneddoti della cultura e della tradizione indiana. Il romanzo riesce abilmente a mescolare lo stile narrativo e documentaristico di denuncia su una delle più feroci discriminazioni indiane nei confronti della donna, senza mai che uno prevalga sull’altro.
«La tradizione braminica riguardo allo stri-dharma dice che una vedova ha due alternative: il rito sati immolandosi sulla pira del marito, oppure condurre una vita di rinuncia e pregare per l’anima del defunto. In alcuni casi, se la famiglia lo consente, può sposare il fratello del marito morto».
Se interessati ad approfondire il rito della sati consiglio di leggere anche: “La pratica della sati o delle vedove bruciate”
Bapsi Sidhwa è nata a Karachi, in Pakistan, ed è cresciuta a Lahore. Sposata, ha tre figli e vive attualmente negli Stati Uniti. I suoi romanzi sono stati tradotti in numerosi Paesi e hanno ottenuto ovunque prestigiosi riconoscimenti. In Italia, le sue opere sono apparse tutte presso Neri Pozza: Lingua d’amore (2015), La spartizione del cuore (2002), Il talento dei Parsi (2000), La sposa pakistana (2003).
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