“La Città della gioia” di Dominique Lapierre
edito Mondadori 1985
Forse uno dei libri più famosi sull’India uscito nel 1985 con il titolo originale La Cité de la joie, un libro talmente famoso da diventare una sorta di secondo nome di Kolkata o Calcutta.
Siamo negli anni settanta, in uno degli slum più grandi e antichi della periferia di Calcutta nel stato indiano del Bengala Occidentale. Un quartiere di poverissimi, accattoni, disperati, emarginati e lebbrosi chiamato “La città della gioia”.
«Uno degli slum più grandi e più antichi di Calcutta si trovava in uno dei sobborghi, incastrato tra i binari della ferrovia, la strada di Delhi e due fabbriche, a quindici minuti a piedi dalla stazione dove era scesa la famiglia Pal. Non si sa se per incoscienza o per sfida, il padrone della fabbrica di iuta cha agli inizi del secolo aveva alloggiato gli operai su quel terreno acquitrinoso infestato dalle febbri, aveva battezzato il luogo Anand Nagar, la “Città della Gioia”.»
In questo mondo ai confini dell’umanità si intrecciano le storie di tre personaggi. Il primo personaggio è Hasari Pal uno dei tanti milioni di abitanti dell’India che chiedeva alla terra il sostentamento suo e della sua famiglia. A seguito di carestie, raccolti andati male Hasari con la sua famiglia lascia il suo villaggio nel Bengala occidentale e si trasferisce a Calcutta per diventare uno dei tanti “uomini cavallo”, conducenti di risciò.
«La città aveva cambiato i nostri occhi», racconterà l’uomo risciò. «Al villaggio scrutavamo il cielo per giornate intere, in attesa delle prime nuvole cariche d’acqua. Cantavamo e danzavamo, pregando la dea Lakshmi di fecondare i nostri campi sotto un benefico diluvio. A Calcutta, non c’era niente da fecondare. Le vie e i marciapiedi, le case, gli autobus, i camion, non possono essere fecondati dalla benefica acqua che fa spuntare il riso delle nostre campagne. Ciò non toglie che spiavamo i segni del monsone con impazienza ancora più febbrile che in campagna. Era per via del caldo tremendo che ti distruggeva, tanto da aver voglia a momenti di fermarti da qualunque parte, e di lasciarti morire.»
In questo luogo disperato lavorano alcuni volontari, tra questi il sacerdote francese Paul Lambert che dedica anima e corpo per questi sfortunati e che per meglio farlo decide di andare a vivere nella bidonville, mangiare il loro stesso cibo, privarsi delle stesse cose, soffrire e ammalarsi come loro.
Arriva poi un giovane chirurgo americano un certo Max Loeb in crisi di identità che, dopo aver letto della storia di Paul Lambert su una rivista, raccoglie l’appello del sacerdote e lo raggiunge a Calcutta. Lo spettacolo che incontra inizialmente lo spaventa, ma non si perde d’animo, e giorno dopo giorno inizia ad aiutare questi miserabili, curandoli e costruendo un lebbrosario. E’ un piccolo aiuto verso il prossimo più debole, ma è anche un aiuto verso se stesso alla ricerca della sua identità smarrita.
«Quel che soprattutto colpì Max fu il sorriso, un sorriso tranquillo e luminoso che scavava due profonde fossette intorno alla bocca, scoprendo quattro denti da latte di un candore abbagliante. Probabilmente era molto povero perché era completamente nudo, ma non aveva l’aria affamata. Tra le braccia stringeva un neonato di pochi giorni avvolto in uno straccio. «Lo teneva con tale fierezza» dirà Max, «con tale serietà dietro il sorriso, e con un senso così evidente delle sue responsabilità che per diversi minuti non mi è riuscito di staccare lo sguardo». Il bambino era un abitante della Città della gioia e il neonato che teneva fra le braccia era il suo fratellino.»
Scritto con cura per i dettagli, con particolare attenzione alla storia, alla cultura e alle tradizioni locali, il romanzo è bello quanto crudo e toccante, ritratto e testimonianza di una parte dell’India che è stata e che ancora adesso in parte continua ad esistere. Ma il libro non vuole essere solo un romanzo, un reportage su una particolare situazione, ma anche una straordinaria lezione di coraggio, un appello alla speranza perché malgrado le tante sofferenze, con la volontà di tutti si riesce chi più chi meno a fare qualcosa.
«Ma per fortuna in quella città maledetta, ogni istante capitava qualcosa che t’impediva di piangere troppo la sua sorte.»
L’autore Dominique Lapierre ha vissuto per due anni sul posto per raccogliere testimonianze, fotografie e appunti. Il risultato è questa un’opera di amore, che ha posto all’attenzione mondiale la situazione a Calcutta. Il libro è diventato anche un film del regista inglese Roland Joffé autore tra l’altro di Mission e Urla del Silenzio, ma il premio più sorprendente e importante che questa libro ha ricevuto è che è diventato un progetto di sviluppo e aiuto, un’Associazione per i bambini dei lebbrosi di Calcutta.
«Riconobbi la mia vecchia amica Padmini, la coraggiosa bambina bengalese che si alzava ogni mattina alle quattro per andare al terrapieno della ferrovia a raccogliere i pezzi di carbone rovente caduti dalle locomotive. Un misero tesoro la cui vendita aiutava la sua famiglia a sopravvivere giorno dopo giorno. Padmini era raggiante: « Prendi questi fiori, Dominique dada (Grande Fratello)» disse. «Perchè, grazie a te, non siamo più soli nella città della gioia.»
Dominique Lapierre, scrittore e reporter francese autore di numerosi libri divenuti best seller internazionali, tra cui Un dollaro mille chilometri (1949), Non hanno ucciso Cheesman (1960), Parigi Brucia (1965 scritto assieme a Larry Collins) raggiunge la fama e la gloria con il suo il libro più famoso La città della gioia (1985). A seguito del successo con quest’ultimo libro ha anche scritto Mezzanotte e cinque a Bhopal (2001 scritto insieme a Javier Moro), India mon amour (2011), Gli ultimi saranno i primi (2012).
Ha fondato l’associazione “Action puor les enfants des lépreux de Calcutta”.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!