“La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya” di Erika Fatland
Marsilio Editori
Un viaggio vertiginoso attraverso gli incredibili paesaggi e la storia drammatica dell’Himalaya, incontrando persone e culture nelle valli di montagna appartate nei cinque paesi attraversati dalla catena montuosa.
L’area in cui il geografo tedesco Alexander von Humboldt battezzò l’Asia centrale è teatro di questo lungo viaggio in montagna di Erika Fatland. Un ambizioso e magnifico diario di viaggio dell’antropologa lungo l’Himalaya.
Cos’è l’Himalaya?
L’Himalaya si snoda attraverso cinque paesi molto diversi: Bhutan, Cina, India, Nepal e Pakistan, dove le religioni mondiali dell’islam, del buddismo e dell’induismo si mescolano con antiche religioni sciamaniche. Qui innumerevoli lingue e culture molto diverse vivono nelle appartate valli di montagna, dove modernità e tradizione si scontrano, mentre le grandi potenze combattono per l’influenza.
Sia sulla carta che nella realtà il massiccio dell’Himalaya non sembra avere confini ben definiti. A ovest è collegato ai sistemi del Pamir, del Karakorum e dell’Hindu Kush. È più corretto dire che l’Himalaya parta dal passo Shibar in Afghanistan, dove in teoria s’interrompe la catena dell’Hindu Kush, o dal Nanga Parbat in Pakisthan, la sua vetta più alta ad ovest, prima di cambiare nome? Nel Kirghizistan la catena del Pamir s’incontra con quella del Tianshan, le «montagne celesti», che a nord sfociano nel sistema montuoso dell’Altaj. Questa a sua volte prosegue senza interruzioni nella catena dei monti Saiani, che termina a oriente sulle coste del mare di Okhotsk. SI può dire allora che l’Himalaya in realatà finisca – o magari inizi – dall’Oceano Pacifico?
La letteratura è ricca di libri e testi che narrano le storie e avventure di alpinisti in viaggio verso l’Everest o di viaggiatori alla ricerca spirituale nei monasteri buddisti e mai come ora si sente parlare, discutere e per chi può affrontare dei 14 Ottomila dell’Himalaya.
Ma quanto sappiamo delle persone che vivono in Himalaya?
Com’è la vita quotidiana in una valle di montagna isolata dell’Himalaya?
L’autrice e avventuriera Erika Fatland viaggia, non per conquistare vette o punti di riferimento ma per conoscere le persone che ci abitano e le diverse culture, assaggiare il cibo, scoprire aneddoti, capire la storia e gli eventi e sperimentarne le usanze. L’autrice incontra, chiacchiera e discute con i molti popoli della regione e allo stesso tempo percorre ed esplora in un vertiginoso viaggio in quota paesaggi incredibili e storie del mondo drammatiche e sconosciute, fino ai conflitti umani più instabili dei nostri tempi.
«Abbiamo uno nostro re» mi spiegò «Non seguiamo la democrazia indiana. Avrà notato i cartelli sulle multe in cui si incorre se si toccano i nostri templi, no? Nemmeno noi possiamo toccarli. Solo dieci uomini, che vengono eletti ogni due anni, possono entrare nel tempio. E solo questi dieci uomini possono estrarre l’hashish dalle piante di canapa. Secondo il nostro credo Akbar, sovrano dell’impero moghul, arrivò qui, ci depredò dei soldi delle tasse e fuggi via. Poi però ebbe un malanno e fu costretto a tornare, e così divenne il nostro re. Celebriamo anche un giorno di digiuno in sua memoria un giorno all’anno le veneriamo come un Dio, tutti gli altri giorni è il nostro re. E inoltre abbiamo una nostra lingua, il Kanashi, ma parliamo tutti anche l’Hindi.»
“La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya” – Viaggio avventuroso sull’Himalaya
Nella prima tappa del viaggio che dura sei mesi da luglio a dicembre 2018 Erika Fatland parte dalla città di Kashgar nella provincia cinese dello Xinjiang sulla Via della Seta e viaggia via Karimabad in Pakistan, Kargil e Leh in Kashmir e Amritsar in India in direzione del Monte Everest proseguendo per Darjeeling, Sikkim, Arunachal Pradesh e Nagaland fino al confine con il Myanmar.
Nella seconda parte del libro che è la seconda tappa del viaggio, che compie qualche mese dopo tra aprile e luglio 2019, visita la capitale Kathmandu in Nepal e il Regno del Bhutan, per poi approdare definitivamente al lago Lugus nella provincia del Sichuan, nuovamente in Cina.
Il punto comune di tutti questi luoghi è che si trovano nella catena montuosa dell’Himalaya, e quindi a migliaia di metri sopra il livello del mare. Fatland non raggiunge le cime himalayane né tanto meno l’Everest, ma arriva fino a trascorre alcuni giorni al Campo Base, che si trova a 5369 metri sul livello del mare.
Paradossalmente lo scopo del viaggio è anche quello di non raggiungere la cima. Il progetto di Erika Fatland consiste, secondo il testo in fondo, di farci incontrare le innumerevoli lingue e culture che vivono nelle appartate e remote valli di montagna dell’Himalaya, incontrando da vicino le persone che ci vivono e che ci lavorano. Dipendenti dell’hotel, guide e altri residenti più o meno casuali ottengono il loro piccolo mini-ritratto, accanto a questi i sempre più numerosi turisti che incontra lungo la strada che si fanno timbrare i passaporti.
«Gli yeti?» gli feci eco io.
«Si, in queste zone ne abbiamo parecchi» disse Lam Ramchen. «L’anno scorso un giovane operatore sanitario del villaggio è sparito nel nulla. Hanno ritrovato i suoi vestiti, ripiegati con cura, ma del corpo nessuna traccia. La polizia l’ha cercato per settimane. Con ogni probabilità è stato rapito da una femmina di yeti che lo voleva come marito.»
«Lei ne ha mai visto uno con i suoi occhi?» gli chiesi.
«No, ho visto solo le impronte. Sono gigantesche. Hanno le dita dei piedi molto lunghe rispetto al tallone. A volte mascherano le loro orme per farle assomigliare a quelle dei cavalli o delle mucche. Qui al villaggio li hanno avvistati in parecchi, e ogni tanto la gente appicca il fuoco a grosse porzioni di bosco per cacciarli via. Non molto tempo fa sono riusciti ad ucciderne uno. Lo hanno seppellito e poi hanno fatto rapporto alle autorità locali. Quelli gli hanno chiesto di tornare con il corpo, ma quando sono andati a dissotterrarlo lo yeti non c’era più…»
Questa suggestiva area del mondo che molti immaginano come luoghi sereni e pacifici, è però teatro di una serie di grandi conflitti di potere, in cui le persone e gli abitanti del luogo sono diventate molto spesso pezzi e vittime di questi giochi di potere. L’autrice in alcuni tratti ricostruisce brevemente la storia deli luoghi, dando un resoconto del grande gioco di potere che ha portato i confini ad andare dove vanno. Le vicende coloniali dell’impero britannico, l’impero russo, la questione tibetana, l’indipendenza del Kashmir il conflitto India-Pakisthan, i confini con la Birmania, Gorkland … sono soltanto alcuni dei temi e delle questioni che vengono sollevate, non solo attraverso una breve descrizione storica dei fatti ma anche attraverso le voci della gente del posto.
«Gli induisti credono che la kumari sia la reincarnazione della dea Taleju, mentre noi newa crediamo che in lei riviva Bajra Devi, una dea tantrica buddhista» mi spiegò il sacerdote. «La gente crede in cose diverse, ma questo non è motivo di contesa. L’attuale kumari ha quattro anni ed è stata scelta quando ne aveva tre. Viene sempre individuata tra le bambine della casta shakya, che sono buddhisti.»
In conclusione si tratta di un bellissimo e avvincente diario di viaggio. Che colpisce non è solo la straordinarietà dell’itinerario, ma sono le immagini, gli spaccati di vita quotidiania le vicende passate e presenti narrate e descritte dall’autrice con semplicità e chiarezza. Un libro ricco di informazioni geografiche, storiche, culturali, antropologiche con molti aneddoti e curiosità che ci faranno apprezzare il libro e impareremo a conoscere meglio i loro abitanti in questi straordinari luoghi così lontani da noi.
«Nel periodo del ciclo le donne cono considerate impure dagli indù di tutto il Nepal: a Kathmandu molte di loro evitano persino di entrare in cucina in quei giorni , ma questa pratica diventa ancora più rigida nelle zone collinari a ovest della capitale. Qui gran parte delle donne in quel periodo del mese pernotta ancora oggi in piccole capanne disadorne. Questa tradizione va sotto il nome di chhaupadi, è estremamente rischiosa: ogni anno una percentuale indefinita di donne nepalesi di ogni età muore in queste capanne a causa del freddo, delle esalazioni di monossido di carbonio o dei morsi letali di scorpioni e serpenti. La pratica del Chhaupadi è proibita per legge e punita con il carcere fino a tre mesi più una multa di venti euro, ma nelle campagne la polizia si vede molto di rado e le sanzioni sono praticamente inesistenti.»
Un linguaggio semplice e asciutto, una scrittura fluente mai pesante anche quando si dilunga a ricostruire intricate vicende storiche e, malgrado la mole del libro, di ben oltre 670 pagine, la lettura procede spedita e le informazioni, curiosità e descrizioni che vengono fornite invitano a continuare la lettura che non vorresti finisse mai.
A conclusione, dopo i ringraziamenti c’è una breve bibliografia delle fonti e per chi poi volesse approfondire, sono testi per lo più in lingua inglese ma alcuni si trovano tradotti in italiano.
Erika Fatland, antropologa e scrittrice
Erika Fatland, è una giovane antropologa e scrittrice norvegese che parla otto lingue. Quando non viaggia vive ad Oslo e collabora con diverse testate giornalistiche.
Si è imposta sulla scena culturale internazionale con Sovietistan (Marsilio 2017), tradotto in ventiquattro paesi, premio dei librai in Norvegia.
Il suo secondo libro, La frontiera (Marsilio 2019), selezionato tra i dieci migliori testi di non-fiction pubblicati in Scandinavia dal 2000, è stato finalista al Premio Terzani 2020. Nel 2021, a Erika Fatland è stato conferito a Roma il Premio Kapuściński per il reportage.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!